Ius scholae, una polemica che non ha ragioni

Articolo di Sara De Carli per VITA.it

Visto dalla quotidianità della scuola, dubbi non ce ne sono: i tempi sono maturi per lo ius scholae e la cittadinanza permetterebbe a una intera generazione di costruirsi una identità senza contraddizioni, con beneficio per la coesione sociale. Dialogo con due dirigenti scolastici, Anselmo Pietro Bosello e Francesco Muraro

All’istituto Gadda Rosselli di Gallarate (MI), su 1.400 studenti il 30% ha cittadinanza non italiana. È un istituto con più indirizzi, dall’istituto tecnico per il turismo al liceo linguistico e per tutti, a scuola «la cittadinanza italiana di fatto c’è già», dice il dirigente scolastico, Anselmo Pietro Bosello. Per tutto ciò che esce dal perimetro dell’istruzione, però «non sono pienamente cittadini, non hanno diritto a tutti gli strumenti e le opportunità… È su questo che lo Stato con le sue regole deve ragionare. Il riconoscimento della cittadinanza a questi ragazzi permetterebbe innanzitutto di godere appieno di tutte le prerogative di un cittadino italiano, ma l’altro aspetto, non meno importante, è l’impatto sulla loro percezione di essere parte integrata della comunità, non solo a scuola ma nella società. Questo discorso della percezione di sé è molto importante e credo possa avere ricadute significative dal punto di vista della coesione sociale. La scuola in altre parole non attende la modifica alla legge sulla cittadinanza come necessità per la scuola, per noi cambierebbe poco, ma come continuità e frutto del lavoro fatto a scuola, a beneficio dei ragazzi e della società. Mostrerebbe ai ragazzi un percorso possibile di evoluzione da studenti a giovani universitari, a lavoratori».

Mentre in Parlamento, sotto il peso dei 1.500 emendamenti presentati dalla Lega, la riforma della legge sulla cittadinanza – questa volta nella formula dello ius scholae – rischia l’ennesimo rinvio, abbiamo chiesto a due dirigenti scolastici di raccontarci l’ordinaria quotidianità della scuola italiana. I pedagogisti d’altronde hanno già preso una posizione chiara: riformare la legge 91/1992 è doveroso, perché – ha detto Massimiliano Fiorucci, presidente della Siped e ordinario di Pedagogia sociale e interculturale all’Università di Roma Tre – «citando Balducci non possiamo vivere in un mondo globale con una coscienza neolitica». Una scuola in cui gli alunni provenienti da contesti migratori – così li definiscono ora i documenti ministeriali, abbandonando prima la denominazione di alunni stranieri e anche quella più recente di alunni con cittadinanza non italiana – sono ormai 877mila, uno su dieci, di cui più del 65% nati in Italia. Secondo un recente sondaggio di ActionAid, lo ius scholae ha un consenso trasversale fra la popolazione, con circa 6 italiani su 10 sono a favore della attuale proposta Ius Scholae: il consenso travalica anche le appartenenze partitiche, dal momento che a sopresa il 48% degli elettori della Lega si dichiara d’accordo con lo ius scholae, il 35% tra chi si dichiara elettore di Fratelli d’Italia e il 58% degli intervistati di Forza Italia. In Parlamento invece si viaggia su altri piani.

Alcune interviste in questi giorni hanno raccontato il disagio dei ragazzi, la vergogna nel dire che dovevano assentarsi da scuola per andare a rinnovare il permesso di soggiorno: «Nella mia esperienza è un argomento che non è mai stato evidenziato, non se per riservatezza o se perché a loro non pesa particolarmente. Questo andrebbe chiesto a loro. Di sicuro a questa età i ragazzi tendono ad aggregarsi per provenienza e a volte qualche tensione c’è. La scuola fa un grande lavoro non solo aggregativo, ma anche di comporre e dirimere i conflitti», racconta Anselmo Pietro Bosello, la cui scuola è anche capofila nazionale delle Scuole amiche della mediazione. «Sarebbe bello se domani, accanto alle istituzioni preposte, anche la scuola fosse presente nel momento in cui un ragazzo riceve la cittadinanza italiana grazie al percorso fatto nella scuola, che possa rivedere lì un suo insegnante». La cittadinanza legata al percorso scolastico, dice Bosello, non va vista «come un premio perché hai studiato» ma come «il riconoscimento di un percorso che hai fatto» e in questa ottica sarebbe «uno stimolo per l’impegno dei ragazzi, che vedrebbero un riconoscimento forte per la fatica fatta ad imparare un’altra lingua e imparere lo stile di vita di una comunità».

È soprattutto nella prospettiva dell’identità che lo ius scholae dispiegherebbe i suoi effetti migliori. Francesco Muraro è il dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo di via Giacosa a Milano, 1.300 alunni di cui il 70% con cittadinanza non italiana. «Parlo da educatore e cittadino, non nella funzione di dirigente scolastico», premette, «ma io credo che il momento per una riforma della cittadinanza sia più che maturo. L’assenza di cittadinanza, per tutti questi bambini e ragazzi, oltre ad avere conseguenze pratiche rispetto a questioni formali – senza codice fiscale e con residenze non certe ci sono delle difficoltà ad accedere a servizi come la mensa, il pre e il post scuola, i centri estivi – c’è un elemento simbolico e di prospettiva: per disegnarmi un futuro, io come bambino, ragazzo, famiglia devo avere delle certezze su chi sono. In questo momento i ragazzi hanno un vissuto contraddittorio che è il caso di risolvere. Il disagio giovanile che nelle scuole posso garantire si vive e si tocca con mano è spesso legato a irrisolte questioni di identità. Avere delle certezze sia da parte del genitore sia del ragazzi man mano che matura la sua consapevolezza aiuta ad allargare il perimetro del dialogo e permette una scelta di prospettiva».

In pieno calo demografico, tenere ai margini potenziali nuovi cittadini, obbligandoli a non considerarsi italiani è qualcosa che non possiamo permetterci: come potranno decidere di costruire il loro futuro in Italia persone che il paese considera sempre come ospiti stranieri, se va bene di passaggio e se va male clandestini? «È rischioso mantenere una generazione in questa incertezza e non è vero che cambia poco. Conta poco forse alla primaria, dove i bambini si percepiscono tutti come bambini e giocano con tutti, ma già nella secondaria di primo grado, ci sono fenomeni di riaggregazione su base etnica. Gli adolescenti spesso nel loro percorso di costruzione dell’identità tendono a ritornare ad aggregarsi arabo con arabo, cinese con cinese…Ma questa cosa è contraria ad un processo felice di integrazione, perché a quel punto i ragazzi se non hanno elementi per sentirsi italiani, costruiscono la loro identità di adulti solo dentro la loro cultura d’origine, “arroccandosi” nel perimetro della comunità d’origine e delle sue tradizioni… Avere una prospettiva di cittadinanza, invece, allarga il perimetro del dialogo».

La proposta dello ius scholae all’esame del Parlamento rispetto allo ius soli di qualche anno fa, spiega Muraro, «è più praticabile, bisogna essere realisti. Dopo due anni di Covid però mi sento di ricordare che la chiarezza normativa è un bisogno vitale e che per le scuole sarà fondamentale avere indicazioni chiare sull’applicazione: i cinque anni devono essere di un ciclo o anche a cavallo tra due cicli? Dovranno essere continuativi o no? Si fa riferimento o no ai risultati scolastici? Una legge ben scritta risponde anche alle possibili obiezioni di chi teme che qualcuno possa approfittare della legge solo per avere la cittadinanza e poi andarsene comunque».

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