La logica emergenziale è stata alla base della gestione delle migrazioni in Italia almeno a partire dal 2002, con l’approvazione della legge Bossi-Fini, che ancora oggi regola la disciplina dell’immigrazione avendo apportato modifiche significative all’impianto legislativo preesistente, inaugurando un percorso che arriva fino ai decreti sicurezza del 2018 e del 2019, al recente decreto Cutro e all’annuncio della “linea dura” da parte dell’attuale governo.
I tentativi di gestione dei fenomeni migratori, concepiti sempre più come problema di sicurezza e ordine pubblico, hanno reso più difficoltoso l’ingresso e il soggiorno regolare dello straniero, da un lato agevolandone l’allontanamento, dall’altro riformando in senso restrittivo la disciplina dell’asilo e gli strumenti di accoglienza.
Le risposte emergenziali non possono aiutare a comprendere un fenomeno complesso, destinato ad aumentare, fortemente legato ad una non equa distribuzione della ricchezza e una risposta alle crisi politiche ed economiche mondiali.
D’altra parte, la concezione radicata che vede nei migranti, al più, un possibile strumento di supporto all’economia del paese, e che ad esempio si esprime attraverso i meccanismi di ingresso attraverso il decreto flussi, spesso ignora sia il fatto che la libertà di movimento – ma anche libertà di scelta e il diritto di restare nel proprio paese senza dover sfuggire a persecuzioni o ad altre forme di oppressione – è un diritto fondamentale, sia l’opportunità di ripresa culturale che può derivare dal confronto con l’altro.
Nell’articolo “Che cos’è una crisi migratoria?”, apparso sulla Rivista “il Mulino”, Giuseppe Campesi, professore associato al Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari «A. Moro», prova a mostrare come il concetto di crisi migratoria possa indirizzare verso pericolose politiche di emergenza.