“Il libro dell’incontro”: estratti

Proponiamo qui di seguito degli estratti da “Il libro dell’incontro – Vittime e responsabili della lotta armata a confronto” di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato, ed. Il Saggiatore, 2015. Il libro ricostruisce un progetto che per diversi anni ha messo a confronto vittime e responsabili della lotta armata degli anni ’70, dando luogo ad un percorso comune di giustizia riparativa, seguendo l’esempio di simili esperienze fatte in diverse parti del mondo, come ad esempio quelle sull’apartheid con la Commissione per la verità e la riconciliazione del Sudafrica. Questo contributo dà seguito all’esperienza di maggio con “Un incontro possibile” evento organizzato dal TITA in collaborazione con La Tenda e con la Cappella Universitaria di Tor Vergata e in cui sono intervenuti Agnese Moro e Aldo Bonisoli.

Il libro dell’incontro

Vittime e responsabili della lotta armata a confronto

MATERIALI, DOCUMENTI, TESTIMONIANZE, STUDI

A cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato

PRESENTAZIONE DEL GRUPPO (p.11)

[…] Si va avanti, si cresce, si invecchia, si ha una vita professionale, sociale, affettiva. Ma non si è interi in questo cammino. Qualcosa di importante di sé è ferma là, a quei fatti. L’elastico si è allungato e ha lasciato la possibilità di arrivare fino ad oggi. Ma ogni istante un incontro, un’immagine, un pensiero, un profumo, un luogo può far scattare l’elastico e riportare istantaneamente a quei giorni. Sono le porte girevoli del dolore e del rimorso. Non si è mai davvero padroni di sé. E non si sa che cosa succederà, come andrà a finire con l’elastico. Che farà di ciascuno l’elastico? Seguiterà a tendersi all’infinito e non si sarà mai più liberi dall’orrore e dalla morte? Sciogliere l’elastico. Delicatamente. Senza perdere nulla, né di ieri, né di oggi. (p.13)

Se per noi, nonostante il dramma e la violenza che ci hanno diviso, stare insieme è una realtà, significa che è possibile, è davvero possibile, cambiare, superare le divisioni, gettare dei ponti, ricucire, riparare, ricostruire. Nonostante tutto. (p.15)

Insieme, poi, solo dialogando insieme, ci siamo resi conto che occorre partire dal dolore di chi ha subito la violenza, farsi carico del bisogno di riconoscimento e di verità che dimora nella loro memoria e in quella di tutto il Paese. (p.16)

LETTERE DEI TESTIMONI (2012-2014) (p.49)

Per la Storia c’è errore se c’è sconfitta, altrimenti tutto giustifica, anche l’orrore. (p.56)

Nessuno di noi agisce senza motivo, e anche io ne avevo. Ma il problema non sono le proprie ragioni, quanto piuttosto il modo in cui si affermano. Io, insieme a molti altri, le avevo portate avanti scegliendo la via più breve e sbagliata, quella dello scontro frontale, della nemicità assoluta e della guerra. E per fare questo avevo dovuto rimuovere e mutilare parte di me stessa, quella che di me era la migliore. Come era stato possibile, come era potuto accadere? […] perché a quei tempi mi sembrava tutto così maledettamente razionale? […] la scelta rivoluzionaria era già diversa dalla spinta alla rivolta. Entrambe sbagliate, ma diverse. (p.57)

Persino il dubbio che mi ha accompagnata sempre in quegli anni, o la mia contrarietà in molti casi, mi appaiono adesso non un’attenuante, bensì un’aggravante. Perché forse avrei potuto fare diversamente, avrei potuto fare di più, lasciare che il dubbio e il dolore incombente scompaginassero fino in fondo le mie pedanti certezze e disarmassero la mia mente, prima che la mia mano.

E neppure il fatto che io credessi fermamente che la violenza fosse un male necessario, una conditio sine qua non per costruire sulle macerie del sistema un mondo migliore, può essere invocato come scusante. Ci sono sempre altre scelte possibili, nonostante le strettoie del caso, i condizionamenti della cultura e della comunità in cui si vive, la fede nell’ideologia in cui si crede, la mancanza di dialogo, la brutalità della repressione, la forza della passione.

Anche in quelli che sembrano vicoli ciechi, c’è sempre una via d’uscita. Anche quando non si vede. L’abbiamo imparato tardi, a fatica, ma l’abbiamo imparato. La strada che avevamo tracciato era senza ritorno, come un sentiero in montagna che frana dietro a ogni passo. E allora abbiamo dovuto percorrerne una nuova, inesplorata, piena di incognite, di incomprensioni e di rifiuti. Passo dopo passo. Fino alla critica più irremovibile e radicale delle scelte passate. (p.58)

[Sono] cosciente che un tale dialogo avrebbe richiesto tempi e condizioni adeguate, evitando ogni forzatura per non generare altro dolore a chi già ne aveva subito tanto. […] Un riconoscimento che, per quello che ho imparato proprio da loro in questi ultimi anni, può arrivare forse dall’incontro diretto con chi è stato causa del loro dolore. […] Vorrei, e spero che prima o poi possa succedere, poter testimoniare alle mie vittime dirette il riconoscimento del dolore di cui sono stato causa e veder realizzata la possibilità di quel gesto riparatore che, ricordo, fu una delle richieste della persona offesa alla fine dell’ultimo processo 30 anni fa: portare insieme un mazzo di fiori sulla tomba del marito. (p.59)

È stata la prima forma di contatto, il dolore. Un dolore per ciascuno di noi così diverso e che ciò nonostante ci accomuna. Il vostro, immenso e incommensurabile, di essere stati colpiti nelle persone più care da una violenza feroce e irragionevole, che ha portato nella vostra vita la morte. E il mio, disperante e cocente, di essere stata tra gli autori di quella irrimediabile violenza. (p.60)

La morte di un uomo non può mai essere qualcosa di giusto, non può mai essere il punto di partenza per un mondo migliore. (p.61)

[…] l’indicibile per me è che tanto le vittime quanto gli ex sono delle comunità dolenti, accomunate, per quanto possa scandalizzare e abbia scandalizzato questa convinzione, dalla stessa sindrome da stress postraumatico, dal cospetto con la morte, dagli incubi di notte che ti assalgono, dai volti di chi è morto e dei suoi congiunti, da quegli spari, da quelle coltellate, da quel sangue. […] Volevi portare la vita e hai portato la morte. Volevi difendere la dignità della vita e sei finito a spalleggiare l’oscenità della morte. Volevi eliminare l’immiserimento dei sentimenti e pensieri quotidiani e hai portato quotidiana desolazione nei cuori. Allora il carico che devi affrontare non è solo quello di avere tradito la vita, ma anche quello ancora più pesante di avere tradito te stesso. (p.62)

[…] il dialogo non è stato e non è tra «vittime» ed «ex», ma tra tante singole persone, ognuna delle quali ha manifestato e chiesto comprensione e rispetto per la propria particolarità per il proprio percorso personale.(p.63)

[…] il ritrovarsi massicciamente in carcere ci ha dato la possibilità di avviare un confronto che è stato lungo e spesso drammatico. Discussioni infinite, liti, risse e perfino agguati, con morti e feriti… Ma assumersi la responsabilità della nostra storia passava allora anche attraverso quelle prove, e proprio dal confronto-scontro interno ai prigionieri è uscita chiara e definitiva la rinuncia alla lotta armata. Sarebbe stato preferibile un confronto meno drammatico, certo, ma quel dramma ci ha fatto toccare con mano la tragedia di tutta la nostra vicenda politica e personale. […] non tutti vi hanno partecipato. (p.64)

[…] un documento firmato da 110 prigionieri, tra i quali tutto il gruppo dirigente di Prima Linea, che dichiarava non solo l’errore della lotta armata, ma la disponibilità a forme risarcitorie costruttive, anche attraverso attività di volontariato in Italia o fuori. Era chiaro a tutti noi già allora che rimaneva un profondo «vulnus» da sanare e che il solo modo di iniziare a farlo era la critica politica alla nostra esperienza. Ancora oggi i fondamenti di quella riflessione sono ciò che può contrastare il ritorno di fenomeni di violenza politica estrema. (p.65)

L’incontro e l’amicizia personale tra presunti nemici è scandalo, sempre lo è stato e sempre lo sarà, ma a noi deve interessare il mostrare che intanto, è possibile. Ecco.

[…] vorrei qui ricordare, per gli effetti di strettoia e di corto circuito che potrebbe ancora oggi provocare, ed è l’assimilazione strumentale di conflitto e violenza. […] Questo ha determinato uno svuotamento delle potenzialità positive del conflitto, un tempo ‘sale della democrazia’, e ne ha lasciato solo l’involucro […] (p.67)

Da qui si può cominciare a intuire dove, come e perché ancora oggi, in un mondo che accresce la sofferenza sociale, si ostina a soffocare il dialogo e a spaccare il mondo in due –giusti e ingiusti, compatibili e incompatibili, accettabili e inaccettabili –, anche altri potrebbero avvitarsi nello stesso errore. Abbiamo già percorso molti tratti di strada insieme, abbiamo vissuto con sofferenza e fatica momenti di particolare intensità emotiva, drammatici, coinvolgenti, laceranti. Ma abbiamo vissuto anche, con gratitudine e stupore, momenti di serenità, di commozione, di conoscenza profonda, di aiuto e affetto reciproco, di gioia, di intimità, di ricerca comune. (p.68)

RIFLESSIONI DI AGNESE MORO (p.91-93)

Roma, 23 settembre 2012 (compleanno di papà)

Prima di mettermi a scrivere […] Volevo essere certa di non aver dimenticato […] quello che è successo a mio padre. Così ho riletto il referto della sua autopsia […] Ho riletto, e pensato tanto ai quindici minuti che gli sono rimasti da vivere dopo i vostri spari, o che gli sono serviti per morire. Leggendo mi sono chiesta che cosa fosse successo in quei minuti; se avete aspettato che morisse per trasportarlo, o se è morto «cullato» dal movimento della macchina. […] Ho pensato […] l’inutile cattiveria di averci privato delle sue parole di addio per dodici anni, anni nei quali, nelle nostre vite è successo di tutto. Dopo queste letture e dopo questi ricordi sono stata davvero sicura di non aver annacquato nulla; che il mio cammino verso di voi – come il vostro verso di noi – è stato fatto senza semplificare, e senza mettere niente tra parentesi.

Quando guardo la strada che abbiamo fatto insieme sento stupore e gratitudine. […] Avevo tanti pregiudizi. Credevo che foste ciechi e stupidi; superficiali, cattivi e indifferenti. Non ero preparata al vostro dolore, alla vostra profondità, (p.91) all’affetto timoroso per noi, alla volontà di dire e di sentire la verità, alla forza dei vostri sentimenti, alla vostra sofferta lucidità. Resto ancora senza fiato pensando a cose che avete detto e a cose che avete scritto. Mi toccano, mi travolgono, mi fanno piangere e mi consolano. Tutto ciò, invece che chiarirlo, rende ancora più misterioso, e in gran parte incomprensibile, quello che avete fatto allora. L’irrazionalismo politico tutti noi di quella generazione l’abbiamo in un modo o nell’altro sperimentato, almeno come certezza che il proprio gruppo fosse l’unico nel giusto e, per questo, superiore agli altri. Ma non tutti hanno preso le armi, anzi. Sarebbe bello capire fino in fondo per impedire che si ripeta. […]

Stupore e gratitudine.

Gratitudine per tutti coloro che fin dalle origini della storia hanno lavorato per rendere possibili incontri come i nostri, primavera di una nuova, possibile, umanità. Penso a Gesù misericordioso sulla croce. A Gandhi, a Martin Luther King […] Gratitudine per Guido, per Adolfo e per Claudia che mi hanno dato la possibilità e il coraggio di tentare l’incontro, e gli occhi per vedere, con una vicinanza allo stesso tempo discreta e attenta; che non ti impone nulla, ma che è sempre lì quando hai bisogno. In alcuni, importanti momenti mi hanno prestato il loro sguardo e la loro umanità. Spero che il bene che mi hanno fatto possa essere loro restituito con tanti interessi positivi. Ma che cosa c’è al centro del nostro stare insieme? Attorno a cosa si sta costruendo quel «noi» così improbabile e così importante? Certamente tante e complesse cose, ma per me soprattutto amicizia e giustizia. La giustizia di ascoltare sincere parole e atti di pentimento, constatare cambiamenti, registrare la dolorosa consapevolezza del male compiuto. Giustizia è poter accusare senza sconti perché si vuole ricomporre. (p.92) Giustizia è dire verità spiacevoli e ascoltarle fino in fondo. Giustizia è poter stare sotto una pianta, seduti insieme, e parlare. Di tutto e di niente. Sentire amicizia. Dare amicizia. Ricucire legami spezzati. Essere felici perché Dio, che è buono, fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Giustizia è essere in ansia per voi, e sapervi in ansia per me.

Che dobbiamo fare? Raccontare a chi ha voglia di sentirla la nostra storia di vicinanza e di amicizia. Accogliere coloro che sono feriti e aiutarli a riprendere fiato. Cercare e conoscere coloro che fanno il nostro stesso cammino, dovunque siano. Ricordare ciò che è avvenuto. Spezzare la catena del male. Avere un nome che ci rappresenti. Imboccare, se vogliamo, nuove strade, ma solo se insieme.

Ho dei timori? Certo. Ma come ci ha detto il cardinal Martini: se uno vuole attraversare l’oceano con una barchetta deve mettere in conto di prendere qualche spruzzo. E io l’oceano lo voglio attraversare. Insieme con voi.

Ciao

Agnese Moro (p. 93)

ACCOMPAGNARE LE DOMANDE – IL RUOLO DEI «GARANTI» (p.125)

[…] il dialogo tra ex appartenenti a gruppi eversivi, vittime e familiari delle vittime non è legato a un’idea superficiale e frettolosa di riconciliazione, idea che oggi, a distanza di anni, apparirebbe totalmente inadeguata, bensì alla necessità – che è di tutti gli uomini – di poter vivere pienamente il tempo presente.

Alessandra Dal Moro (magistrato): “Ho così percepito come insufficiente e “monco” tutto il sistema penale che si concentra sul fatto- reato, disinteressandosi sia dell’autore che della vittima; un sistema che ha come suo epilogo fisiologico l’applicazione di una pena, prevalentemente detentiva, che di “rieducativo” ha poco o nulla” (p.130)

Se non è per tutti – vittime e colpevoli – che giustizia è? Se, oltre a rispondere al reato – che è la sua materia prima –, la giustizia penale non ha riguardo per la persona, se, dunque, non è per la persona, essa rimane monca. (p.131)

Siamo stati (come gruppo) in comunione con qualcosa di scandaloso e impossibile. Ore e ore, guidati da passi biblici, che non avevano la pretesa di essere nient’altro che questo: vivere lo scandalo e la meraviglia del reciproco ascoltarsi. (p. 135)

«Come raccomandava Iosif Brodskij a una folla di giovani – sottolinea Gabrio Forti – “di tutte le parti del corpo bisogna controllare specialmente il dito indice, perché è assetato di biasimo”». (p.137)

[…] è stata per noi […] l’occasione per comprendere la vera radice della stima, che non sta in quello che io so già di te, ma nella libertà con cui io, qui e ora, mi metto in gioco insieme a te.[…] siamo “Garanti” che le parole ascoltate vengano maneggiate con la cura necessaria, per poter diventare una piccola luce di speranza: anche dove tanta violenza è esplosa, dentro e fuori l›essere umano, il male può non avere l›ultima parola.

Gherardo Colombo: ”[…] le ferite non si cancellano: non è possibile, né giusto farlo (si tornerebbero a commettere gli stessi errori), ma si può imparare a guardarle senza che questo generi rancore” (p.140)

Maddalena Crippa: “Avere il coraggio di toccarne le ferite guarisce entrambi.” (p.142)

  • Premessa ai saggi giuridici (Gabrio Forti) (p. 145)
  • Dentro il carcere – Il legislatore e l’amministrazione penitenziaria di fronte all’emergenza dei detenuti per fatti di lotta armata (Biancamaria Spricigo) (p. 150)
  • Dall’altra parte del delitto – Alcune riflessioni sulla tutela delle vittime di reato (Carlo Riccardi e Diletta Stendardi) (p. 170)
  • Premessa ai saggi biblici: l’incontro del «Libro» (Grazia Grena e Roberto Vho) (p.198)
  • Giustizia, conflitto e riconciliazione nel «Discorso della Montagna» del Vangelo secondo Matteo (Guido Bertagna e Giancarlo Gola) (p. 200)
  • Dinamiche di alterità, di conflitto e di riconciliazione:1 percorrendo la narrazione degli Atti degli Apostoli (Guido Bertagna e Giancarlo Gola) (p. 218)

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