“A volte mi chiedo se non debba invidiarli. A volte mi chiedo come facciano a provare tutto questo odio, come possano essere così sicuri. Perché coloro che odiano devono esserlo, altrimenti non parlerebbero, non offenderebbero, non ammazzerebbero in quel modo. Non potrebbero sminuire, mortificare, aggredire gli altri in quel modo. Devono essere sicuri di sé. Non avere alcun dubbio. Se si dubita del proprio odio non si può odiare. Se dubitassero non potrebbero essere così fuori di sé. Per odiare c’è bisogno di una consapevolezza assoluta. I forse disturbano, i magari interferiscono, sottraggono energie che invece devono essere canalizzate.
L’odio è un sentimento inesatto. Non si può odiare bene, in maniera precisa. Perché la precisione implicherebbe una certa delicatezza, uno sguardo o un ascolto mirato, quello sforzo di differenziazione che nella singola persona, con tutte le sue qualità e inclinazioni, riconosce un essere umano. Sfumando i contorni, invece, gli individui diventano irriconoscibili, restano solo collettività indistinte, e si può insultare, urlare e far chiasso un po’ come viene: gli ebrei, le, donne, gli infedeli, i neri, le lesbiche, i rifugiati, i musulmani, o anche gli Stati Uniti, i politici, l’Occidente, i poliziotti, i media, gli intellettuali. L’odio si fabbrica il proprio oggetto su misura” (dalla Prefazione).
“Contro l’odio” di Carolin Emcke (La nave di Teseo, 2017), è un saggio che, anche riletto a distanza di qualche anno, conserva ancora la forza e l’attualità del libro che temiamo ancora debba essere citato a lungo negli incontri, nei dibattiti e nelle pubblicazioni sui temi dell’intolleranza, del razzismo e dei fanatismi.
L’autrice, filosofa e giornalista, una delle voci più ascoltate della scena intellettuale e culturale tedesca, ci aiuta a riflettere sulle origini dell’odio e sulle strategie che ognuno di noi può mettere in atto per combatterlo. A partire dalla descrizione di episodi di ordinaria e straordinaria intolleranza, analizza a fondo i punti deboli delle nostre società dai quali possono trovare terreno fertile sentimenti di odio per il “diverso” e di paura nei confronti di una società disomogenea e plurale e ci introduce alle dinamiche nascoste degli eventi nei quali cui l’odio si è fatto strada.
Nell’analizzare un video sui fatti di Clausnitz, in cui, nel 2016, un centinaio di persone assaltò un pullman pieno di rifugiati, l’autrice si chiede, riferendosi agli assalitori: “Cos’è che vedono? Cosa vedono di diverso da quello che vedo io?”, e poi, cosa vedono invece gli spettatori, arrivati lì per curiosare? Perché nessuno di loro fa nulla? Perché sono rimasti fino alla fine a guardare? E cosa vedono poi i poliziotti, stranamente rivolti verso il pullman e non verso la folla che sbraita? E le mamme, i ragazzi e i bambini da sopra il pullman sotto assedio?
Il punto di vista si sposta e rivela pian piano i meccanismi alla base dell’odio: la disumanizzazione dell’altro, la xenofobia mascherata da preoccupazione per il mantenimento del proprio status sociale ed economico, i nazionalismi e i falsi miti identitari, le falsificazioni dietro le narrazioni su una società omogenea, naturale, pura.
Ma soprattutto Emcke vuole indicarci una via d’uscita, fornendoci qualche strumento di contrasto all’odio. Da una parte promuovere interventi economici e sociali laddove c’è insoddisfazione e tensione che possono facilmente trasformarsi in odio e violenza. Ma anche spingere verso una cultura della convivenza e dell’inclusione, in una società plurale in cui ogni individuo è unico, ma sempre con e per gli altri.
“Serve, quindi, un’arringa in favore del diverso, un inno all’impuro. Perché è questo che irrita di più colui che odia, il fanatico, con il suo feticismo della purezza e della semplicità. Serve una cultura del dubbio illuminato e dell’ironia, ovvero i generi di pensiero invisi ai fondamentalisti e ai dogmatici razzisti”.
La resistenza all’odio passa, poi, certamente dal riportare continuamente alla realtà dei fatti, dall’esporsi in prima persona per obiettare e dalla manifestazione di dissenso, ma anche attraverso la riconquista di spazi della fantasia e dell’immaginazione. Bisogna raccontare storie, esperienze, raccogliere testimonianze anche per smontare le narrazioni, su individui e gruppi vittime dell’odio e dell’esclusione, che mirano alla semplificazione e alla riproposizione di luoghi comuni disumanizzanti e stereotipati. E quindi raccontare esperienze che mostrino come la possibilità di essere felici si possa realizzare per tutti, storie in cui le vittime dell’odio mostrano talenti intellettuali, ironia, predisposizioni artistiche, generosità e qualità empatiche, debolezze e insicurezze. In poche parole, storie in cui si riappropriano della propria umanità.
I poveracci che odiano sono dei poveracci. Gli intellettuali o i politici che spingono all’odio sono criminali…
Bravo Paolo….