Da “Rocca” 16/17 2022 di Fiorella Farinelli
Con la chiusura anticipata della legislatura finisce al macero, anche il cosiddetto «ius scholae», cioè il riconoscimento della cittadinanza ai ragazzi con back-ground migratorio nati in Italia o arrivati prima dei 12 anni che abbiano frequentato almeno cinque anni di scuola. Anche prima della crisi e relativo scioglimento delle Camere, la strada si era fatta in verità quanto mai impervia. Si era capito dall’esultanza con cui Lega e Fratelli d’Italia avevano commentato il successo dell’accanita battaglia ostruzionistica, a colpi di centinaia di insulsi emendamenti su un testo fatto di due soli articoli, che aveva portato al rinvio non calendarizzato della votazione sulla proposta presentata dall’onorevole pentastellato Giuseppe Brescia. Grande, ancora una volta, la delusione delle associazioni che da più di un decennio chiedono la revisione della legge Martelli del 1992 sull’immigrazione.
Quella secondo cui le «seconde generazioni» possono richiedere la cittadinanza solo al compimento dei 18 anni (mettendone in conto almeno due per ottenere una risposta), una norma che ignora le trasformazioni economiche, sociali, culturali della realtà italiana prodotte dall’immigrazione straniera nei successivi trent’anni. Sullo sfondo, i sentimenti di frustrazione e forse – speriamo di no – anche di rancore di centinaia di migliaia di ragazzi, moltissimi nati e cresciuti in Italia, a cui si continua a promettere e poi immancabilmente a negare di far parte a pieno titolo della società in cui vivono.
una battaglia di civiltà
I limiti dello «ius scholae», una proposta che diversi commentatori hanno con qualche ragione definito «una battaglia minima di civiltà», sono noti. La revisione delle regole di accesso alla cittadinanza, un’esigenza che dovrebbe riguardare l’intera platea dell’immigrazione stabilizzata, riguarda infatti solo i suoi figli, o meglio solo i figli minori che siano anche studenti. L’accesso alla cittadinanza resta, anche per i nati in Italia, non un diritto ma una sorta di concessione, non solo perché deve essere formalmente richiesta dai genitori ma anche perché, basata sul requisito della regolare frequenza scolastica, presenta lo sgradevole profilo del premio a un comportamento apprezzabile (ma in Italia, il Parlamento dovrebbe saperlo, l’istruzione fino ai 16 anni, non è un merito ma un «obbligo», dei ragazzi, delle famiglie, della stessa Repubblica). L’ accertamento
dell’«integrazione» è inoltre affidato a un’istituzione poco appropriata perché la scuola, pur decisiva in questo campo, ha compiti, funzioni e sopratutto valori e regole di altro tipo. Tutt’altra cosa, insomma, questo «ius scholae» rispetto al più razionale e generoso «ius soli temperato» introdotto da anni in gran parte dei grandi paesi europei, che mette invece al centro la stabilità e regolarità della residenza. Ma le ripetute difficoltà incontrate da proposte precedenti più sostanziose e meno restrittive, avevano finito col convincere dell’opportunità di convergere sul testo Brescia, ritenuto un passaggio comunque decisivo per aprire un primo varco nella straordinarie chiusure e contrarietà della politica italiana su questi temi.
La politica, del resto, non è solo quella che si gioca nelle aule parlamentari. Come ha segnalato di recente un sondaggio di ActionAid, allo «ius scholae» si dichiara favorevole il 63% dei cittadini italiani, con quote diversificate secondo gli orientamenti politici ma con un andamento sostanzialmente trasversale. Fanno da collante il mondo cattolico, da tempo apertamente schierato a
favore, e il largo campo del mondo della scuola a contatto diretto con gli 877mila studenti figli di immigrati stranieri (oltre due terzi nati in Italia) e con le difficoltà anche in termini di apprendimento e poi di inserimento lavorativo connesse alla negazione di un diritto che è invece esperienza concreta nelle aule scolastiche. Insegnanti e dirigenti sono largamente convinti della bontà di un accesso anticipato alla cittadinanza, e lo sostengono con pratiche educative e con argomenti che rassicurano e convincono anche molte famiglie italiane. Il Paese, del resto, mostra segni evidenti di cambiamento anche in altri ambiti politico-istituzionali. Tra il 2019 e il 2022 si sono moltiplicati i consiglieri comunali e municipali di origine straniera, soprattutto in Trentino, Lombardia, Toscana, Piemonte, Emilia Romagna, eletti in città grandi e piccole per lo più nelle liste
di centrosinistra e in quelle civiche, una piccola ma sempre più visibile ondata di partecipazione civile e politica di «nuovi italiani» ormai «naturalizzati» (su 5,2 milioni di stranieri regolarmente residenti in Italia, 1,6 sono oggi dotati di cittadinanza) o di cittadini «comunitari» a cui una legge del 1996 ha consentito se non l’eleggibilità almeno il diritto al voto amministrativo. Una situazione ancora circoscritta ma in continua espansione, e in evoluzione rispetto alle prime esperienze di una decina di anni fa in cui i primi consiglieri con background migratorio erano consiglieri «aggiunti» delegati dai Comuni a rappresentare le istanze delle loro comunità. Oggi vengono invece eletti con il voto di tutti, sono quindi titolari di una rappresentanza democratica in piena regola.
Come mostra il fallimento di molte esperienze anglossassoni, non è del resto il multiculturalismo, cioè l’accettazione, in base a regole condivise, della convivenza tra comunità che restano diverse e distinte, la via maestra per sviluppare le nuove società di tipo interculturale richieste dalla portata e dall’impatto delle migrazioni e della mobilità internazionale nel mondo globale.
per la destra i diritti arrivano sempre dopo
È proprio in questo quadro che sono stati in molti, negli ultimi mesi, ad essere convinti che la proposta Brescia potesse finalmente passare in questa legislatura, visto che il provvedimento è stato ed è sostenuto dall’intero centrosinistra e dai Cinque Stelle, e tenendo conto di aperture interessanti anche di parte del centro destra, in particolare di Forza Italia. Ma il tema continua, nonostante tutto, ad essere vissuto dalla politica nazionale come massimamente divisivo, quindi eccessivamente esposto ad accese strumentalizzazioni in un campo già grandissimamente minato, e non è da oggi che in Italia è questo risvolto che finisce per contare più di ogni altra cosa. Anche il Pd che ha ripetutamente fatto di questo tema un tratto identitario della sua cultura e del suo agire politico, si è spesso alla prova dei fatti dimostrato eccessivamente cauto. Nessuno, nelle associazioni delle «seconde generazioni», e nelle tante altre che dettero vita nel 2011 alla prima campagna nazionale «L’Italia sono anch’io», può dimenticare che una proposta analoga, in verità assai meglio costruita di quella dell’onorevole Giuseppe Brescia, sebbene già approvata da un ramo del Parlamento non venne sottoposta a votazione nell’altro, proprio per il timore del Pd di incorrere, a ridosso di un’importante scadenza elettorale, in pericolosi e negativi contraccolpi di parte dell’opinione pubblica. «Per la destra i diritti arrivano sempre dopo», è tornato anche recentemente a dichiarare Emanuele Fiano del Pd, ma è evidente che anche per il centrosinistra i diritti non sono sempre una priorità.
Nel Rapporto annuale sulla situazione del Paese presentato agli inizi di luglio, l’Istat ha dato i numeri sulle «seconde generazioni» facendo per la prima volta il calcolo di quanti sarebbero, se venisse approvato, i destinatari immediati dello «ius scholae».
Si tratta, a gennaio 2020, di 1 milione e 300mila minori nati in Italia da genitori stranieri, di cui il 22,7% (oltre 228mila) ha già acquisito la cittadinanza perché cittadini italiani sono diventati i genitori, quindi in base al tradizionale «ius sanguinis». Sono, tra cittadini e non cittadini, il 13% degli under 18 residenti in Italia, una quota consistente del futuro dell’Italia e del lavoro italiano, e destinata a causa dell’imponente e irresistibile calo demografico della popolazione italiana, a vedere aumentare di anno in anno il suo peso specifico. Gli studenti delle nostre scuole pubbliche e paritarie finora censiti dal Ministero dell’Istruzione come privi della cittadinanza italiana sono quasi 900mila, il 9,7% del totale studenti.
Considerati i requisiti previsti dallo «ius scholae» – essere nati in Italia o esserci arrivati prima dei 12 anni e avere compiuto percorsi scolastici di 5 anni (o di qualificazione professionale triennale), la platea dei destinatari immediati è fatta di 280mila ragazzi.
Più di un quarto nella sola Lombardia e il 68% in cinque regioni del Centro Nord (oltre alla Lombardia, il Lazio, l’Emilia Romagna, il Veneto, il Piemonte). Numeri teorici, ovviamente, perché l’accesso alla cittadinanza nella proposta Brescia è condizionato alla richiesta dei genitori, ed è noto che non tutte le comunità straniere – soprattutto quelle extracomunitarie che vengono da Paesi che non consentono la doppia cittadinanza o quelle comunitarie che hanno già il diritto di muoversi liberamente nell’area europea – hanno la stessa propensione alla «naturalizzazione». Sono dunque numeri relativamente modesti, ben lontani dal rischio paventato dai soliti seminatori di razzismo
secondo cui lo «ius scholae» si tradurrebbe automaticamente in giganteschi processi di «sostituzione etnica». Anche il fantasma talora evocato di miriadi di donne africane o asiatiche che, grazie a un «ius soli» che in verità non sta in nessuna agenda politica, sarebbero pronte a partorire nei nostri areoporti bambini automaticamente definiti italiani, è con ogni evidenza una bufala colossale, ma il nostro, si sa, è un tempo di grandi e difficilmente contrastabili bufale.
il rischio di sprecare un potenziale prezioso
Non sono i numeri, tuttavia, a dire tutto quello che serve a capire. Per la banale ragione che non tutto quello che conta si può contare. La conoscenza diretta delle seconde generazioni – nella scuola ma anche nel lavoro, nel volontariato, nella cultura, nello sport, nelle comunità locali – ci dice molto altro. La prima cosa è che le provenienze e le origini del-le seconde generazioni, soprattutto di quelle nate in Italia o arrivate in età scolare, non si traducono se non raramente in appartenenze chiuse o separate, ma danno luogo a processi e dinamiche che contribuiscono allo svecchiamento e alla sprovincializzazione del Paese. Dove i processi di integrazione scolastica, territoriale, lavorativa funzionano, le diversità culturali, religiose, linguistiche sono piuttosto un potenziale di modernità e di innovazione, si tratta di ragazzi multilingue, affacciati su mondi diversi, mediatori interculturali «naturali», privi dei pregiudizi da noi troppo diffusi nei confronti dei percorsi formativi in area tecnico-professionale, interessati all’istruzione e alla qualificazione come strumento di miglioramento delle condizioni sociali proprie e della propria famiglia, sempre più propensi – quando le condizioni delle famiglie lo permettono – a guardare in avanti e oltre, quindi ai percorsi liceali e post-diploma. La seconda cosa è che per molti l’essere privi di cittadinanza è, anche da studenti, una grave limitazione di libertà e di opportunità (perfino nelle attività sportive di tipo agonistico organizzate dagli istituti scolastici, perfino nelle visite di istruzione e negli stages all’estero) e si traduce spesso in serio impedimento a scegliere liberamente, secondo i propri talenti e vocazioni, i percorsi che sboccano in attività professionali il cui esercizio richiede il possesso della cittadinanza. La terza cosa è che la negazione di ciò che molti vivono come il portato della loro esperienza diretta – essere e voler essere eguali ai coetanei italiani pur non negando le proprie specificità culturali – conduce a frustrazioni, crisi identitarie, sentimenti di estraneità, risentimenti e rancori che nessun Paese autenticamente democratico e attento alla coesione sociale dovrebbe
sottovalutare. Si potrebbe provvisoriamente concludere che l’accesso alla cittadinanza non dovrebbe essere, come è ancora nella proposta Brescia, una concessione, né tanto meno, come alcuni continuano a sostenere, una sorta di premio riservato a percorsi di particolare merito o successo. Perché cittadinanza dovrebbe invece essere per tutti, italiani doc o nuovi italiani, il coinvolgimento consapevole in un cammino comune, fatto di diritti e anche di doveri, di responsabilità verso se stessi e anche verso la comunità di cui si è parte. Ma nella discussione che si è sviluppata finora a proposito dello «ius scholae», solo raramente o a mezza voce hanno avuto spazio pensieri e strategie di questo tipo. Troppo complesso e troppo impegnativo per il sistema politico dell’Italia di oggi.
Ma è qui, invece, il fuoco della questione.
Fiorella Farinelli
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